Esplorando l'Io


Replying to #5 La discesa nell'asocialità

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  1. Posted 30/3/2024, 12:45
    Quest'oggi mi sono recato a fare qualche acquisto per il mio guardaroba. Anche un asociale deve adempiere a questa incombenza.
    Da perfetto asociale, non avendo nessuno che mi accompagnasse, sono venute con me mia madre e mia zia.
    Sulla macchina mi sono beccato una ramanzina da parte di mia madre, se così si può definire un'osservazione di rimprovero fatta a un trentenne indipendente. Sostiene che io, rispetto a mio fratello, sono un <<cane solo>> che non ha mai fatto nulla per avere dei rapporti sociali solidi, ma soltanto inventato talmente tante scuse da allontanare chiunque. Ehi, ha ragione, certo, ma evidentemente non si rende conto che l'asocialità richiede parecchia organizzazione, è come un secondo lavoro a tempo pieno, h 24.

    Solitudine durante la scuola media
    Insomma, se qualcuno è arrivato a leggere qualche frammento di questi ricordi confusi, non si stupirà di certo sapendo che durante le scuole medie ero totalmente privo di contatti, io stesso li schivavo.
    Avendo fatto esperienza del bullismo, preferivo tenermi ben lontano da chiunque, con l'unico obiettivo di evitare guai.
    Sarebbe stato meglio reagire subito, prima che il ruolo di vittima sfigata mi si cucisse addosso come un vestito realizzato dal miglior sarto. Piangevo molto, venivo costantemente minacciato. A quei tempi, quasi tutte le mattine prima di entrare a scuola, portavo con me della cioccolata che distribuivo in classe. Lo vedevo come un trucco per frenare la volontà di violenza dei miei nemici. A volte funzionava, ma non è che mi abbia risparmiato molti traumi fisici e psicologici. Bastava che l'insegnante si assentasse per breve tempo, che io mi ritrovavo a prendere pugni o schiaffi. Ero talmente abituato che nemmeno li sentivo più, al punto che davvero, con il senno di poi, avrei dovuto ribellarmi subito.
    Una sola volta, durante le scuole medie, andai ad un camposcuola con gli altri. Fu terribile: senza alcun motivo, e davanti a studenti anche di altre classi, ricevetti anche lì la mia dose di umiliazioni quotidiane che mi servirono a pensar bene nelle volte successive. E così non partecipai più ad alcun camposcuola, nessuna gita. Fui io a ritrarmi da tutto.

    L'ultimo festeggiamento
    L'ultima volta che festeggiai qualcosa, avevo circa 12 o 13 anni. Era un compleanno, durante le scuole medie, nel quale invitai una decina di persone, tra cui il capo dei miei bulli. Era pura diplomazia, una strategia finalizzata a dimostrare amicizia per evitare problemi futuri.
    La festa fu abbastanza un disastro, quei dieci scalmanati, incapaci anche di rimanere seduti educatamente, non solo si fecero notare, ma successivamente vollero andare al parco a giocare a lanciarsi i sassi. Erano circa le 22.30, avevamo finito di mangiare, io rimasi da solo nel locale, con mia madre e mio padre che mi guardavano come se per la prima volta potessero intuire chi fossi davvero: un solitario a cui nessuno davvero prestava la minima attenzione.

    L'adolescenza
    Il primo ricordo del liceo è impresso come un marchio sulla carne, ma questa volta positivamente. Ho frequentato il liceo classico e ricordo che nelle lezioni di orientamento, prima dell'inizio dell'anno, la scuola regalò a tutti un segnalibro, dove appariva in grassetto l'espressione "Hic manebimus optimae", ovvero "qui staremo benissimo". Sul segnalibro si raccontava una vicenda mitica che aveva interessato Roma: a seguito di un terremoto, il Senato era in procinto di decidere se ricostruire la città di Roma sulle rovine, o spostarsi nella vicina Veio. Da fuori, si sentì il chiaro ordine ad un soldato di piantare il gonfalone a terra: "hic manebimus optimae". L'ordine fu interpretato come un presagio positivo, che spinse il Senato a optare per la ricostruzione.
    Effettivamente questo fu il liceo: un benevolo rifugio di cortesia e cultura, una palestra per la mente, rispetto al vuoto e alla desolazione che regnavano attorno.
    A quel punto, tuttavia, fui io a dimostrare una natura ribelle. Era l'età dell'adolescenza, non avevo avuto amici prima, ed ero finalmente deciso a ricostruire, a sistemare le cose e a cominciare qualcosa di nuovo e di buono, con un gruppo di amici vero.
    Andò così a lungo. Ero una specie di nuova matricola apprezzabile e ammirata fin da subito: il sabato bevevo, spesso mi ubriacavo, e poi presto arrivò anche la cannabis. Io non mi facevo mancare nulla, e con le mie bestemmie offendevo l'animo di quelle persone pudiche che mi sembravano seguire pedissequamente gli indirizzi genitoriali e sociali, sfuggendo a quella che vivevo come una vera e propria sinistra sociale, infantile, gioiosa.
    Andò bene per tutti quegli anni e all'inizio anche dopo.
    Nonostante il sabato sera, nonostante la frequenza sempre maggiore di giorni passati in stato di stordimento, a scuola andavo piuttosto bene. All'università ancora meglio, e lì mi stordivo praticamente quotidianamente.
    Dopo il liceo studiavo da fuori sede, rifugiandomi durante le vacanze nei miei luoghi di origine, che all'inizio mi sembravano immutati. Per me era un vero piacere sentire le storie di compagni che zoppicavano, che sembravano dei piccoli pulcini smarriti nella transizione dal liceo all'università, mentre io invece volavo come un'aquila, viravo, piroettavo nella vita, apparendo brillante e interessante.
    Eppure, nonostante ci misero più tempo, anche gli altri pulcini cominciarono a volare. Ogni tanto andavano contro gli alberi, sgraziati, ma a forza di inciampi trovavano anch'essi la propria strada. Scoprii allora, che mentre mi sentivo il perno del mio gruppo di amici, ero in realtà un ingranaggio dello stesso peso di tutti gli altri. Io avevo deciso che i miei amici del liceo sarebbero stati la mia vacanza, loro avevano per se stessi altri piani, e puntavano a realizzarsi. Per tanto tempo li ho visti smarriti, però hanno cercato di costruire anche nei rapporti sociali. Ci sono effettivamente riusciti, io mi ero tuffato sullo studio, come poi mi sono tuffato nel lavoro, e per me non esisteva altro.

    Io, vagabondo che son io
    Non mi bastò studiare in un'altra città. Rinnovavo spesso l'esperimento andandomene all'estero, riuscendo facilmente grazie al mio focus sullo studio.
    Negli anni dell'università ho avuto una fidanzata, per tre anni, che effettivamente mi allontanò dalla mia consueta asocialità, tuttavia, ricordo che al momento della rottura, mi accusò anche di voler stare troppo tempo da solo, disse qualcosa come: "a volte mi sembri un asociale". Evidentemente quella cosa ti si cuce addosso, nei pensieri, negli atteggiamenti. Non so come è andata, è stato l'incontro tra circostanze diverse: i rifiuti e il bullismo subiti da bambino, lo stordimento anestetizzante che sostituiva la presenza di persone nella mia vita, le chat online, che permettevano di mettere un punto a una conversazione chiudendo una pagina web.
    E fu così, che arrivando ad oggi pomeriggio, mia madre mi ha ricordato le capacità sociali di mio fratello, che non solo ha tanti amici, ma anche una ragazza. Non come me che non faccio altro che starmene da solo ed evitare le occasioni sociali e le feste. Io la prendo sportivamente: sono sempre stato quello intelligente e studioso, quello bravo a studiare e a lavorare (tipo una bestia da soma?) e dunque mi sembra giusto che mio fratello eccelli in altre arti. D'altronde, non è forse vero? Avrei davvero il coraggio di dar torto a mia madre? Temo le feste, non mi piace essere invitato, mi preoccupa la possibilità di essere invitato a matrimoni, compleanni e feste di qualsiasi tipo, odio i social network (l'asociale deve socializzare rimanendo anonimo!). Insomma, sì, sono un asociale e mi sono abituato ad esserlo.

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